…Padre onnipotente…


Riportiamo qui il contenuto della lectio sul Credo Niceno-Costantinopolitano a cura del pastore Peter Ciaccio, terzo appuntamento. Attenzione: mercoledì prossimo 1° novembre non si terrà lo studio. Appuntamento mercoledì 8 novembre alle 20.30. Al termine è prevista una discussione con i presenti.

Padre

Per un cristiano è normale rivolgersi a Dio dicendo “Padre”. Anzi, con l’evoluzione dei rapporti familiari, “padre” come vocativo è riservato solo alle rappresentazioni di antichi testi teatrali e, appunto, al contesto liturgico-spirituale. Usiamo “padre” come termine descrittivo, ma sempre più raramente come appellativo. “Papà” ha preso il posto di “padre”, con le discutibili varianti “papi”, “papino”, “paparino” e potremmo continuare.

L’origine dell’uso di “Padre” per rivolgersi al Dio cristiano è da attribuirsi a Gesù e a quanto riportato nei Vangeli, sia al fatto che Gesù si rivolga al “Padre mio” sia al fatto che ci inviti a rivolgersi al “Padre nostro”. Eppure questo non era un uso comune nell’ebraismo, che preferiva non rivolgersi a Dio come Padre, come facevano invece altre religioni del Vicino e Medio Oriente. Il rischio era di inserirsi in una classica Teogonia, dove gli esseri umani sono figli quasi “naturali” degli dei. L’antico Israele voleva invece che del rapporto con Dio venisse evidenziata non la figliolanza, ma l’elezione.

In sintesi, non sei figlio di Dio perché Dio è tuo Padre, ma Dio è tuo Padre perché ti ha scelto come suo figlio.

La scelta di Gesù, chiara e decisa, di usare l’appellativo “Padre” non è una deroga al pensiero ebraico né un passo verso le altre fedi: Gesù usa il termine ebraico “Abbà”, che non significa propriamente “Padre”, ma “Papà”. Dunque, “Padre” non è sinonimo di “Creatore” — pur trattandosi della stessa Persona della Trinità — e non è neanche un titolo di rispetto dovuto: è un appellativo che afferma un inedito tipo di relazione, dove l’affetto, l’amore, la cura prendono il sopravvento sul dovere, sulla gerarchia, sul potere.

Questa riflessione ci dice, a latere, quanto sia radicata nella sfera umana una concezione sacrale e gerarchica del potere, al punto da ritenere scandaloso rivolgersi a Dio come “Papà”. Ora, io sono il primo che non riuscirebbe mai a rivolgersi a Dio come “Papà”, anche perché nella mia vita solo una persona può essere chiamata così. Tuttavia, è importante prendere coscienza che chiamare Dio “Padre” e non “Papà” — come avrebbe voluto Gesù — sorge dall’idea che Gesù non avrebbe dovuto osare l’“Abbà”, quasi volesse scardinare le dinamiche di potere nel nostro mondo a partire dal rapporto tra il credente e Dio.

Oggi possiamo dire che era proprio così. E pensare che sull’immagine di “Dio Padre” è stata costruita un’idea terribile, temibile, oppressiva di Dio. Quanti dicono ancora oggi che guardano a Gesù, al suo dolce sguardo, perché non possono guardare al Padre, alla sua severità e al suo giudizio inflessibile!

Ripeto, non credo sia percorribile la via dell’evitare di chiamare Dio “Padre”, ma spero che il senso di questo appellativo ci riconcili a un’immagine più amorevolmente paterna. Anche perché c’è una conseguenza molto interessante del considerare Dio un Padre che si potrebbe chiamare “Papà”. In una relazione familiare sana, infatti, io non ho bisogno che altri dicano a mio padre quel che voglio dirgli io. La relazione è diretta. Certo, passa per l’elezione, passa per l’adozione, passa per Gesù, ma non passa per la Madonna o i santi, non passa per i preti o i pastori, non passa per i teologi o i santoni. Dio è “Padre”, dunque per me c’è.

C’è un altro aspetto da esplorare prima di andare avanti: l’appellativo “Madre”, che ormai molti inseriscono accanto a “Padre”, soprattutto in seguito alla ricerca teologica femminista. Su questo vorrei condividere due punti.

Il primo è che Dio non viene chiamato “Madre” nella Bibbia né da Gesù né da altri. Si parla di “Pastore”, di “Re”, ma non di “Madre”. Pertanto,  senza una riflessione appropriata, parlare di “Dio Padre e Madre” rischia di essere solo l’applicazione in campo teologico del — sacrosanto — principio del linguaggio inclusivo. Dio non può non essere inclusivo e l’immagine di Dio riflessa non solo nell’uomo, ma anche nella donna, deve essere evidenziato. Ma non basta questo, non basta la necessità — giusta — di non escludere nessuno in questa immagine. La maternità di Dio è qualcosa di più profondo di questo.

E vado al secondo punto. Da una parte non c’è dubbio che Dio abbia anche caratteristiche che noi umani attribuiamo alla sfera del femminile. Questa non è una scoperta recente, ma una verità che il potere maschile ha cercato di nascondere per secoli. Il Concilio di Toledo del 675 dichiarò che «il Figlio è generato… dall’utero del Padre», per fare un esempio. D’altra parte il senso di riscoprire la maternità di Dio non è semplice inclusione di genere, ma è la sfida all’ideologia del patriarcato, del potere gerarchico, del dualismo che distingue tra le cose da mettere in due caselle distinte. Nella casella dei buoni inserisce l’uomo, l’anima, l’intelletto, la luce, il bianco; nella casella dei cattivi inserisce invece la donna, il corpo, il sesso, il buio, il nero. E così via.

La ricerca teologica femminista ci ha liberato dalla percezione di Dio  esclusivamente maschile, una percezione che ha reso necessaria in parte del cristianesimo l’elevazione di Maria quasi a divinità, una “Nostra Signora” da affiancare a un “Nostro Signore”, una “Madonna” da affiancare a un “Messere”.

Dio Padre, l’Abbà, è molto più di un padre supremo e fortissimo.

…Onnipotente

Da questa idea di “Padre” possiamo legare il discorso dell’onnipotenza di Dio. L’onnipotenza è un attributo facile da confutare con la logica, in particolare attraverso i paradossi. Ad esempio, se puoi tutto, puoi anche non potere? Ma allora non sei onnipotente.

L’onnipotenza di Dio va compresa in maniera diversa. Il significato letterale “Colui che può tutto” è fuorviante. Dio è onnipotente perché può fare quel che l’essere umano non può fare. Dio può creare dal nulla, l’essere umano no. Dio può essere, allo stesso tempo, giudice giusto e padre amorevole, l’essere umano no. Dio può rendere reversibile l’irreversibile, l’essere umano no. Dio può dire l’ultima parola, l’essere umano no. Dio può sconfiggere definitivamente la morte, l’essere umano no.

In sintesi, l’onnipotenza di Dio significa: Dio sì, l’essere umano no. E se colleghiamo questo a quanto detto su “Padre”, comprendiamo che il sì di Dio non è per sé o non è solo per sé: è un sì per l’essere umano. Dio crea dal nulla per dare la vita a noi. Dio cancella il nostro peccato. Dio sconfigge la nostra morte.

Confessare l’onnipotenza di Dio è anzitutto un atto di umiltà dell’essere umano. E lo è anche ogni volta che fondiamo un “potere” tra noi. Le nostre gerarchie non sono lo specchio del potere divino, infatti, ma sono espressione della dimensione umana, immersa nel peccato. Il potere umano si manifesta spesso sull’essere serviti, mentre l’onnipotenza di Dio si manifesta nel servizio, nella relazione, nella cura e nell’amore. Prova di questo è che il perdono dell’essere umano è spesso vissuto come un segno di debolezza, mentre il perdono di Dio è espressione della sua potenza.

Un altro ambito in cui l’onnipotenza di Dio si manifesta è nella capacità di sostenere le donne e gli uomini nelle loro ore più buie. Quando, infatti, un nostro amico, un conoscente, un fratello o una sorella di chiesa è sofferente, noi non abbiamo la facoltà innata di stare vicino ad essi fino in fondo. Il dolore altrui ci disturba, perché ci ricorda il nostro dolore. Così diciamo ai nostri amici: “Ma non ci pensare… ma lascia stare… pensa alle cose belle”. E chi sta male, resta anche solo e abbandonato dalle persone che — veramente — gli vogliono bene.

Quante volte mi viene detto da chi sta male: «Pastore, ma Dio mi odia?» «Perché sto male?» «Cosa ho fatto di male?» «Perché Dio mi punisce?» «Perché chi è peggio di me sta meglio di me, che non ho mai fatto male a nessuno?» Domande terribili, imbarazzanti, scomode, ma domande vere. Chi le pone, le ha veramente dentro di sé e non riusciremo a liberarlo fuggendo, chiedendo di cambiare discorso o cambiandolo direttamente noi.

«O Signore, perché te ne stai lontano? Perché ti nascondi in tempo d’angoscia?», così inizia il Salmo 10 e tanti sono gli esempi di preghiera analoga. Sì, preghiera. Eppure nessuno ci insegna a pregare Dio in questa maniera. Dio si loda, si ringrazia, si chiede a Dio, ma lamentarsi di Dio con Dio?

La Bibbia, che è il fondamento della nostra fede e, dunque, anche del Simbolo niceno-costantinopolitano, ci rivela questa importante verità: Dio può reggere ciò che noi non possiamo, Dio ha orecchie sufficientemente forti da poterci ascoltare anche quando ci rivolgiamo a Lui in maniera scandalosa. L’onnipotenza di Dio si manifesta anche così e, come le altre manifestazioni della sua onnipotenza, anche questa è per noi. L’ascolto del nostro dolore da parte di Dio è già un atto terapeutico, di guarigione.

Dio può e può per noi.

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