Predicazione di domenica 8 ottobre 2017


Predicazione tenuta dal pastore Peter Ciaccio sul testo di Marco 9, 17-27, durante il culto di domenica 8 ottobre 2017 presso la nostra chiesa

«Maestro, ho condotto da te mio figlio che ha uno spirito muto; e, quando si impadronisce di lui, dovunque sia, lo fa cadere a terra; egli schiuma, stride i denti e rimane rigido. Ho detto ai tuoi discepoli che lo scacciassero, ma non hanno potuto». Gesù disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatelo qui da me». Glielo condussero; e come vide Gesù, subito lo spirito cominciò a contorcere il ragazzo con le convulsioni; e, caduto a terra, si rotolava schiumando. Gesù domandò al padre: «Da quanto tempo gli avviene questo?» Egli disse: «Dalla sua infanzia; e spesse volte lo ha gettato anche nel fuoco e nell’acqua per farlo perire; ma tu, se puoi fare qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». E Gesù: «Dici: “Se puoi!” Ogni cosa è possibile per chi crede». Subito il padre del bambino esclamò: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità». Gesù, vedendo che la folla accorreva, sgridò lo spirito immondo, dicendogli: «Spirito muto e sordo, io te lo comando, esci da lui e non rientrarvi più». Lo spirito, gridando e straziandolo forte, uscì; e il bambino rimase come morto, e quasi tutti dicevano: «È morto». Ma Gesù lo sollevò ed egli si alzò in piedi.

Il padre di un bambino epilettico ha bisogno di Gesù e va prima dai suoi discepoli, i quali non possono far nulla per lui. Poi va da Gesù, che prima si arrabbia coi discepoli, colpevoli di non credere, poi chiede al padre del bambino se crede e infine guarisce il bambino.

Sembra uno schema classico. Nei vangeli spesso i discepoli si mostrano incapaci e spesso Gesù interroga chi gli chiede un miracolo. La particolarità di questo testo è il ruolo della fede. I discepoli, infatti, non vengono rimproverati da Gesù perché incapaci. Che sono incapaci lo dice il padre del bambino (“non hanno potuto”): Gesù li definisce “increduli”.

L’incredulità dei discepoli è alla base del loro fallimento. Sarebbero riusciti a sanare il bambino se avessero creduto di più? Non lo sappiamo e mai lo sapremo. Sappiamo, però, che la loro poca fede è ragione sufficiente per renderli inutili.

I discepoli sono inutili perché si ritengono solo dei discepoli. Noi siamo discepoli e basta: che ti aspetti da noi, caro papà del bimbo epilettico? Ecco, qui vediamo una sfida al nostro essere chiesa. Noi siamo figli di una Riforma che ha lavorato per sgonfiare la chiesa. Potremmo riassumere la critica di Lutero a Roma in maniera rozza e con un linguaggio a noi contemporaneo con le parole: “Ma chi ti credi di essere?”  Chi ti credi: ancora il verbo credere.

Una chiesa che dal magistero passa al discepolato, come la nostra, riceve una sfida da questa parola. Siamo solo discepoli? Siamo solo servi inutili? Quando uno bussa alla nostra porta, cosa rispondiamo? Se aggiungiamo che non solo siamo una chiesa figlia della Riforma, ma che siamo una chiesa povera, la sfida ci appare ancora più grande.

Pastore, ma tu vuoi che facciamo miracoli? No, non è questo il punto. Il punto è che noi non possiamo ritenerci buoni a nulla, se non esclusivamente per evitare di sentirci Dio, se non per evitare di ripercorrere quegli errori che Valdo, Lutero, Calvino hanno rinfacciato alla chiesa di Roma. Non dobbiamo dimenticare che Dio ha mostrato più volte, contro ogni logica umana, di avere fiducia in noi. Ogni volta che lo abbiamo tradito, Dio ha rinnovato la sua fiducia in noi. Questo lo ha fatto in maniera definitiva e radicale, incarnandosi in Gesù Cristo.

Ora, se Dio ha fiducia che noi possiamo fare qualcosa, perché noi ci ostiniamo a fare poco o nulla? Perché siamo solo discepoli? Il discepolato implica che noi non solo impariamo da Gesù, il nostro maestro, ma che noi ci applichiamo nei suoi insegnamenti. Allora, non saremo in grado di compiere miracoli e guarigioni spettacolari, ma, quel poco che possiamo fare, facciamolo. Poi, magari, scopriremo che il Signore fa miracoli anche oggi.

E questo per quanto riguarda i discepoli. Ma c’è un altro punto importante di questo testo, che ci fa riflettere oggi.

Dice Gesù al padre del bambino: «Dici: “Se puoi!” Ogni cosa è possibile per chi crede». Subito il padre del bambino esclamò: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità».

Questi versetti sono, permettetemi di dirlo, vertiginosi. In questi versetti percepiamo l’abisso della disperazione dell’essere umano. Il padre del bambino è come uno che sta cadendo per un crepaccio. Chi ha vissuto difficoltà serie nella vita sa cosa significa. Vedere il precipizio da dentro il precipizio. Cosa fa quest’uomo? È appeso a una roccia, la roccia della fede. Ma non basta. Non basta per uscire dal precipizio. Appeso alla roccia riesce a restare sospeso, a non precipitare ulteriormente, ma non riesce a mettersi in salvo, non riesce a uscire da questa situazione precaria. E allora con una mano si appende a una roccia, mentre tende l’altra mano al Signore. Io credo, Signore, e con una mano sono appeso a questa roccia, ma tu vieni in aiuto alla mia incredulità, prendi la mano che non è appesa alla roccia.

E Gesù prende questa mano e lo trae dall’abisso sul quale l’uomo era sospeso. L’ultimo versetto, riferito al bambino, vale anche per il padre. “Ma Gesù lo sollevò ed egli si alzò in piedi”.

Se prima, riferendomi ai discepoli increduli mi sono permesso di mettere in discussione una parte dell’eredità della Riforma, qui, invece, ci troviamo proprio nella situazione in cui ci hanno messo Lutero e compagni: soli davanti al Signore, in posizione precaria, con un pizzico di fede o magari non proprio un pizzico, anche una fede importante, ma sempre insufficiente. Una fede che ha sempre bisogno di essere completata dal Signore, una fede nella quale non possiamo fare affidamento totale, ma che ci serve per sapere a chi rivolgerci per la salvezza definitiva. Signore, “io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità”.

Non ci sono surrogati, qui non c’è chiesa, non ci sono discepoli che tengano. C’è solo Cristo. Sono io, da solo, davanti a Cristo. Sei tu, da solo, da sola, davanti a Cristo. “Nudi seguiamo il Cristo nudo”, dicevano i primi valdesi, riferendosi ai beni materiali, alla ricchezza e alla povertà. Ma potremmo usare lo stesso motto per questa situazione: davanti a Cristo siamo nudi, indifesi, appesi a un filo. Il filo della fede.

Io credo, dice il padre del bambino, ma la mia fede non mi basta. Vieni Gesù in mio soccorso, “vieni in aiuto alla mia incredulità”. La mia fede è importante, la mia fede mi permette di non precipitare, di restare appeso, sospeso. La mia fede mi dà un appiglio. La mia fede mi dà una coordinata, un punto di appoggio, un punto nello spazio, in quello spazio che la matematica definisce infinito. Quel punto mi definisce, quel punto mi conforta, quel punto è importante. Ma non è sufficiente. Gesù viene in quel punto dove noi siamo sospesi, viene in aiuto alla nostra incredulità e ci fa alzare, ci rimette in piedi.

Sappiamo che per stare in piedi non basta un punto, non basta uno spuntone di roccia nell’abisso. Per stare in piedi abbiamo bisogno di una terra piana, stabile. Per camminare abbiamo bisogno che ci sia un posto dove poter camminare. Ecco l’aiuto che ci viene dal Signore. Quel punto infinitesimale diventa un piano, diventa un luogo dove stare, camminare, andare avanti.

La Riforma questo ha combattuto quando ha ridimensionato il ruolo della chiesa: tu, chiesa, non puoi salvare dall’abisso, tu non puoi sovvenire all’incredulità, tu non puoi rimettere in piedi le persone. Quello lo fa Gesù e solo Gesù. E poi, e da lì parte il discepolato, la sequela, che solo così può essere utile.

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