Predicazione di Pasqua 2018


Predicazione per la domenica di Pasqua, 1° aprile 2018, a cura del pastore Peter Ciaccio sul testo di I Samuele 2,1-2.6-8.

Allora Anna pregò e disse: «Il mio cuore esulta nel Signore, il Signore ha innalzato la mia potenza, la mia bocca si apre contro i miei nemici perché gioisco nella tua salvezza. Nessuno è santo come il Signore, poiché non c’è altro Dio all’infuori di te; e non c’è rocca pari al nostro Dio… Il Signore fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire. Il Signore fa impoverire e fa arricchire, egli abbassa e innalza. Alza il misero dalla polvere e innalza il povero dal letame, per farli sedere con i nobili, per farli eredi di un trono di gloria; poiché le colonne della terra sono del Signore e su queste ha poggiato il mondo [I Samuele 2,1-2.6-8].

Ci sono delle professioni che hanno delle analogie con la sfera del divino. E non parlo di preti e pastori. Parlo di chi riesce a creare apparentemente dal nulla qualcosa di nuovo. Sappiamo che non crea dal nulla, ma da una propria idea. Solo che noi non vediamo concretamente quell’idea: solo il creatore la vede e poi la realizza.

Se vi capitasse di andare a Firenze, vi consiglio di visitare la Galleria dell’Accademia, dove ogni giorno centinaia e centinaia di persone da tutto il mondo si mettono in fila per vedere il David di Michelangelo. A parte il David, che è una delle più belle meraviglie che mano umana abbia mai creato, quello che mi ha sempre colpito della Galleria dell’Accademia è l’allestimento: il David è alla fine di un corridoio, che ai lati ha sculture apparentemente incompiute, sempre di Michelangelo. Si tratta di blocchi di marmo da cui cerca di uscire una figura e sono veramente impressionanti. Si racconta che, quando sceglieva i blocchi di marmo da scolpire, Michelangelo non vedesse dei blocchi di marmo, ma delle figure da liberare. Ecco cosa intendo quando parlo di analogie col divino.

Poi ci sono altri casi. Pensate agli scrittori che si immaginano un mondo e lo mettono nero su bianco. Pensate a un regista che mette in scena una storia che prima non esisteva, con personaggi che non esistevano, ma che poi esistono, perché la storia è stata creata. Poi, però, le storie si concludono e non tutte si concludono bene. Si chiudono, ma non tutte si compiono: alcune restano tronche, imprigionate nel marmo come le sculture di Michelangelo. E troviamo un punto o la parola fine.

Così sono le nostre vite. Per millenni l’essere umano ha cercato un senso alla vita. Ma è sempre andato a sbattere su un punto, sulla parola “fine”. Siamo riusciti a spostare la parola “fine” sempre più avanti. Studiamo l’ibernazione e la clonazione. Cerchiamo di guadagnare tempo. Ci sentiamo a un passo dalla soluzione, dall’uscita, dalla definizione. Ma a un certo momento, c’è il punto.

Come in un romanzo, come in un film, a un certo momento i personaggi finiscono e non ci è dato sapere cosa accade dopo, perché dopo il punto non c’è niente. I personaggi finiscono, ben definiti. Sappiamo quello che l’autore ha voluto farci sapere e non possiamo sapere altro. Ci piace leggere, ascoltare, vedere queste storie, perché ci troviamo rispecchiati in esse, ci immedesimiamo.

Anna, la protagonista del testo della predicazione di Pasqua, era così: un personaggio definito. Era una delle due mogli — all’epoca evidentemente la famiglia tradizionale era qualcosa di diverso — di un tale Elcana. L’altra si chiamava Peninna e, a differenza di Anna, era riuscita a dare dei figli ad Elcana. Ho usato il verbo “riuscire”, perché c’era un giudizio all’epoca — in parte questo giudizio resiste anche ora — nei confronti delle donne: brava se facevi i figli, meno brava se non li facevi. La definizione stessa di donna era legata alla maternità. Il primo capitolo del primo libro di Samuele ci narra di una storia triste, che ci fa immaginare come Anna vivesse la sua condizione come quella di una moglie di serie B, una donna di serie B.

Questa era Anna. Una donna sterile, per la società dell’epoca una moglie inutile o, peggio, una moglie che poteva conquistare una certa utilità mettendosi al servizio dei figli della famiglia e della loro madre. Questa era Anna. Punto. Fine. Non c’è altro da dire. La sua vita era segnata. Punto. Fine. Non c’è altro da dire.

Ma Anna crede, Anna sa che qualcuno può cambiare la sua storia, qualcuno può cambiare il suo personaggio. E quel qualcuno è Dio. La preghiera di Anna, la richiesta di un figlio, non è una richiesta egoista, per quanto sarebbe stata comprensibile. Anna non chiede di avere un figlio per mettere in discussione il ruolo di Peninna nella famiglia. Anna non vuole un figlio per mostrare al marito Elcana che anche lei può, che anche lei è una moglie di Serie A. Infatti Anna promette — e manterrà — che suo figlio Samuele sarà consacrato al Signore, sarà donato al Tempio.

Da questa storia si potrebbero tirar fuori conseguenze sulle discussioni che oggi si fanno su genitorialità, di maternità, sulla famiglia, sulla pedagogia, ma oggi non è il giorno per fare questo: oggi è Pasqua ed è di una storia pasquale che stiamo parlando, non di famiglia.

Perché Anna vuole un figlio che poi non vorrà tenere con sé? Perché il punto non è essere ridefinita e rinquadrata in un altro personaggio. Il senso della richiesta di Anna è potere affermare con forza quello che alcuni hanno detto con queste parole: dove l’essere umano mette un punto, Dio mette una virgola.

Dio mette una virgola. La storia non finisce. La storia continua.

I morti risorgeranno. Noi che siamo morituri, risorgeremo. La morte non è l’ultima parola. La morte non mette il punto e la parola “fine” alla nostra storia. Il Signore sconfigge il potere del punto, della definizione, che sia opera della morte, che sia opera di chi ci vuole morti viventi.

Noi oggi annunciamo che il Signore sconfigge in Cristo la morte. La resurrezione di Gesù ci annuncia che Dio vuole essere l’autore delle nostre vite, l’autore che compie tutto eliminando il compimento della morte, il creatore che sconfigge l’idea stessa di definizione della sua opera. Andate a vedere l’Accademia a Firenze e scoprirete che le statue incompiute sembrano più vive del David, bello, imponente, ma appunto morto.

Il canto di Anna ci dice che non dobbiamo aspettare la morte per vivere l’opera di resurrezione di Dio. Possiamo risorgere già ora, possiamo scoprire già ora che il Signore ci libera dalle definizioni della nostra società, perché dove l’essere umano mette un punto, Dio mette una virgola.

Ciascuno e ciascuna di noi sa come si chiama quella virgola. Per Anna si chiamava Samuele. Per tutti e tutte noi si chiama Gesù, il Cristo, il Vivente. Amen.

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