Sermone del 14 Febbraio 2016 10


“Avendo dunque un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, stiamo fermi nella fede che professiamo. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovar grazia ed essere soccorsi al momento opportuno.”

(Ebrei 4, 14-16)

 

La lettera agli Ebrei è certamente uno degli scritti meno conosciuti del N.T. soprattutto perché adopera un linguaggio inusuale e presenta delle problematiche religiose piuttosto complesse che rendono la sua lettura alquanto ardua per i moderni lettori delle Sacre Scritture, alla pari con certi libri dell’A.T., come per esempio il Levitico, che descrivono riti complicati e leggi ormai inconcepibili non solo dal punto di vista laico, ma anche da quello religioso. Ciò fa sì che molti si chiedano quale attualità possa avere uno scritto di questo genere per i cristiani di oggi, i quali si trovano di fronte a ben altri problemi che non quelli riguardanti il sacerdozio o altre simili questioni.

Eppure, questo scritto, che più che una lettera, simile per esempio a quelle dell’apostolo Paolo, è una “parola di esortazione”, come lo stesso autore la definisce, anzi, un vero e proprio sermone, una vera e propria predicazione, contiene affermazioni veramente sorprendenti e stimolanti che costituiscono un cibo solido per nutrire la nostra fede in Cristo e spingerla a quell’ubbidienza gioiosa che il Signore oggi richiede a tutti i suoi discepoli.

Nel nostro brano l’autore della lettera designa Gesù come sommo sacerdote, anzi come “grande Sommo Sacerdote”, come più grande, più importante del  Sommo Sacerdote del Tempio di Gerusalemme. Si tratta di un titolo che appare per la prima volta nella cristologia del N.T.; infatti, né i vangeli né le altre lettere apostoliche hanno mai attribuito a Gesù un simile titolo, ma esso serve ad affermare la superiorità del nuovo patto stabilito da Dio col suo popolo e basato sul sacrificio unico e definitivo di Gesù sulla croce, rispetto al vecchio patto basato sulla legge di Mosè e sui sacrifici propiziatori compiuti dai sacerdoti nel Tempio. Come il sommo sacerdote attraversava nel Tempio il luogo santo per entrare una volta all’anno nel luogo santissimo e celebrare il sacrificio, così Gesù, il Figlio di Dio, dopo la sua morte e risurrezione ha attraversato i cieli per giungere a Dio, e sedersi alla destra del “trono della grazia”.

E proprio perché in Cristo abbiamo un “grande sommo sacerdote” che intercede per noi presso Dio Padre, “stiamo fermi nella fede che professiamo”, perché Gesù non è incapace di compatire le nostre debolezze. Egli è stato un uomo come noi e in quanto tale è stato tentato come noi, ma ha saputo resistere al peccato. Perciò accostiamoci a Dio con piena fiducia per ottenere misericordia per le nostre miserie e trovare grazia per le nostre colpe, per ricevere da lui un aiuto convenevole nel momento opportuno, nel momento in cui ci troviamo nel bisogno, in cui le avversità e le malattie si abbattono su di noi, in cui la stanchezza o lo scoraggiamento stanno per avere il sopravvento, in cui stiamo per soccombere sotto l’incalzare delle forze preponderanti del male.  

Stiamo dunque “fermi nella fede”, in una fede che non è soltanto un sentimento interiore, una convinzione che si risolve all’interno della nostra mente e della nostra coscienza, ma è anche e soprattutto la “fede che professiamo”, cioè la fede che manifestiamo apertamente, con franchezza, senza esitazioni o paure, senza distrazioni, senza opportunismi; essa è, prima di ogni altra cosa, la fede centrata esclusivamente su Gesù Cristo, il Figlio di Dio, il quale, come ci dice l’apostolo Paolo, “è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione”.

Stiamo fermi nella fede che professiamo”. Questa è la “parola di esortazione” che oggi ci viene rivolta da questo brano della lettera agli Ebrei, che ci riguarda in modo particolare e ci impegna come credenti evangelici. Oggi, nel nostro mondo occidentale, stare “fermi nella fede” non è un problema, o meglio, non è un problema oggettivo, ma solamente soggettivo, la cui soluzione dipende solamente da noi, dalla saldezza della nostra fede, dalla decisione che noi sappiamo prendere. Infatti, oggi a noi non viene proibito di professare la nostra fede; si tratta di un diritto previsto e tutelato dalla nostra Costituzione e dalle Costituzioni di tutti i Paesi civili.

Ma un tempo non era così. Un tempo anche in Italia, anzi, particolarmente in Italia, non si poteva liberamente professare una fede diversa da quella che il potere religioso imponeva. Noi, in quanto valdesi, lo sappiamo bene. Sappiamo che i nostri padri nella fede sono stati perseguitati per secoli, sono stati gettati in carcere, sono stati arsi vivi al rogo, come è accaduto a Giacomo Bonelli proprio qui a Palermo, in piazza Ucciardone, il 18 febbraio del 1560. Sappiamo che molti valdesi sono stati sterminati in Calabria, a Guardia Piemontese, a Montalto e a San Sisto, nel 1561; molti altri sono stati sterminati nelle Valli Valdesi in Piemonte, nel 1655; molti altri ancora sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e i propri campi e ad andare in esilio, nel 1686. Sappiamo anche che, pur se non vere e proprie persecuzioni, alcuni tipi di vessazioni e di discriminazioni contro gli evangelici sono durati praticamente fino agli anni Cinquanta dello scorso secolo, nonostante la Costituzione repubblicana.

Ciò nondimeno, questi nostri padri nella fede sono rimasti “fermi nella fede” che professavano e si sono accostati “con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovar grazia, ed essere soccorsi al momento opportuno”. E il momento opportuno Dio lo ha stabilito il 17 febbraio del 1848, quando i valdesi hanno finalmente ottenuto l’emancipazione, cioè sono stati finalmente considerati cittadini come tutti gli altri, con gli stessi diritti civili degli altri, anche se, come recitava il testo del documento ufficiale, le cosiddette Lettere Patenti, “nulla è innovato quanto all’esercizio del loro culto”. Questa sia pur limitata libertà è stata utilizzata, con l’aiuto di Dio, non solo per uscire fuori dal ghetto in cui erano stati rinchiusi e per mettersi al passo con il resto della società del loro tempo, ma per dare inizio a una vasta opera di evangelizzazione in tutto il territorio d’Italia, fondando numerose nuove comunità, tra le quali anche la nostra.

Anche noi, dunque, che siamo i loro diretti eredi spirituali e che, grazie a Dio, non viviamo in una condizione che assomigli, sia pur lontanamente, alla loro condizione di tribolazione, di persecuzione e di pericolo per la vita, accogliamo l’esortazione della lettera agli Ebrei e “Stiamo fermi nella fede”. Stiamo fermi, ma non certo immobili; stiamo fermi, ma non certo chiusi all’interno della nostra struttura ecclesiastica, all’interno della nostra tradizione religiosa, all’interno delle nostre attività abituali. “Stiamo fermi nella fede”, cioè, rimaniamo saldi, incrollabili nella nostra fede, rimaniamo fedeli al messaggio dell’evangelo che ci è stato rivolto e che ha trasformato la nostra vita, ma rendiamo testimonianza della nostra fede annunciando che Gesù Cristo è il Signore, anche al di fuori del nostro ambiente abitudinario, sia con le parole che con gli atti, sia con la predicazione che con la diaconia.

Oggi, nella nostra società, la fede cristiana è minacciata dall’incombere dell’indifferenza o della superstizione o addirittura dell’idolatria, come dimostrano gli ultimi fatti di cronaca, che offrono lo spettacolo esecrabile di migliaia di persone sedicenti cristiane che, più che onorare, adorano il cadavere di un uomo tutt’altro che onorabile. In questa situazione è necessario più che mai un annuncio chiaro ed esplicito da parte di chi sta ancora fermo nella fede, di chi confida ancora unicamente in Dio Padre e nel suo figlio Gesù Cristo. Siamo anche noi tra costoro? Siamo noi capaci di accogliere l’invito che la Parola di Dio ci rivolge?

Consapevoli della nostra debolezza, rivolgiamoci al Signore affinché intervenga col suo Santo Spirito e fortifichi la nostra fede, e renda capaci di restare “fermi nella fede” non soltanto noi, ma anche e soprattutto coloro che ancora oggi nel mondo non possono professare liberamente la propria fede, affinché, come afferma l’apostolo Paolo, nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre”. Amen.

Renato Salvaggio


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