Spiritualità e Giustizia


Predicazione di domenica 11 febbraio sul testo di Amos 5,21-24,
a cura del pastore Peter Ciaccio

«Io odio, disprezzo le vostre feste,
non prendo piacere nelle vostre assemblee solenni.
Se mi offrite i vostri olocausti e le vostre offerte,
io non le gradisco;
e non tengo conto delle bestie grasse
che mi offrite in sacrifici di riconoscenza.
Allontana da me il rumore dei tuoi canti!
Non voglio più sentire il suono delle tue cetre!
Scorra piuttosto il diritto come acqua
e la giustizia come un torrente perenne!»
[Amos 5,21-24]

Questo è un testo molto pericoloso per noi protestanti, o almeno per protestanti come noi. Infatti noi non siamo centrati esclusivamente sui momenti cultuali, non amiamo particolarmente i riti né la stessa parola “rito”. La ritualità, almeno a parole, ci provoca una certa allergia. Il rito e la ritualità a noi occhi spesso assumono il carattere di ritualismo.
Non solo. Per quanto semplice sia la nostra liturgia, la chiesa per noi non è solo il culto. La diaconia, il servizio ai poveri e agli emarginati è molto importante. E neanche questa è ritualità, perché la nostra diaconia implica anche un impegno politico ad ogni livello per eliminare le cause della discriminazione e dell’ingiustizia.

I corridoi umanitari, il lavoro delle nostre commissioni di bioetica, sulla globalizzazione e l’ambiente, sulla fede e l’omosessualità, sui migranti: tutto questo indica lo sforzo della nostra chiesa a non limitarsi alla “sagrestia”, ma a cercare una coerenza tra la Parola predicata e ascoltata e le nostre azioni.

E non c’è solo questo: c’è la cultura. Un pastore non deve solo imparare i riti del culto, dei culti speciali, battesimi, matrimoni, funerali etc. Un pastore si forma e studia per quasi dieci anni prima di esser consacrato tale e chiese come questa, e spesso gli si richiede di essere una sorta di “tuttologo”. E per alcune chiese, come questa per esempio, quei dieci anni non bastano: le chiese autonome, infatti, aspettano che il pastore serva in altre comunità per ancora qualche anno prima di ipotizzarne l’elezione.

Quando ci imbattiamo nel testo del profeta Amos la nostra reazione rischia di essere: «Non è con noi che ce l’ha».

È stata ed è tuttora una battaglia continuare ad essere la chiesa che vogliamo essere. È talmente radicata in noi l’idea di un riscontro pratico della nostra fede, che il dialogo con cristiani più legati al rito e alla liturgia, è visto ancora da molti di noi con sospetto. Quasi non ci volessimo contaminare. Quasi come se qualunque cosa si discosti dal nostro essere chiesa sia incoerenza o, peggio, ipocrisia.

La tentazione nella nostra chiesa è di sentirsi migliori degli altri. Il peccato, poi, sarebbe di sentirsi migliori degli altri perché “lo dice Amos”, ovvero di cercare conferme scritturali del nostro retto agire. C’è solo un modo per aspirare ad essere “migliori”, e mai di altri, ma di se stessi. E quel modo è prendere consapevolezza di essere come, se non addirittura peggiori degli altri.

Nel momento in cui, infatti, ci si sente “a posto”, cominciano i guai. Amos profetizza contro una società che si sentiva “a posto” e solo poi, nello specifico, attacca il ritualismo, l’esaurimento della fede nel momento cultuale.

Significa, allora, che dovremmo riscoprire la bellezza della liturgia, il senso della partecipazione  costante al culto? Sì. Significa proprio questo. Significa che dovremmo riprendere a pregare, a studiare la Scrittura, a cantare gli inni come facevano (o come ci dicono facessero) i nostri antenati o come fanno (o come dicono facciano) gli altri, quelli delle altre chiese? Sì.

Nel duro e radicale linguaggio profetico di Amos sembra esserci un buttare dalla finestra l’aspetto che noi definiremmo più religioso in favore di un comportamento che favorisca la giustizia e il diritto. Anzi, non sembra: è così. Ma, se vogliamo fare lo sforzo di non sentirci a posto quando la Scrittura indica qualcosa che non va, allora forse riusciamo a percepire che il problema non è il culto, non è il sacrificio, non sono le offerte, ma il culto senza diritto e le offerte senza giustizia.

Allo stesso modo, il nostro operato, la nostra diaconia, il nostro impegno politico per una città, per un’Italia, per un mondo più corrispondente con la giustizia e il diritto non hanno senso senza culto, senza preghiere, senza cura per la chiesa, senza impegno nella chiesa, senza contribuire anche economicamente alla vita della chiesa, di quella piccola chiesa locale che continua ogni domenica mattina a tenere il culto, la scuola domenicale, e ogni settimana il catechismo, lo studio biblico.

Perché? Perché prendere il testo di Amos per dire qualcosa che sembra essere l’esatto contrario di quel che dice? Per due motivi. Il primo è che è salutare, come abbiamo già visto, non sentirsi troppo a posto con le Scritture. Il secondo è che la forza imponente e costante di un ruscello non è dato dalla massa dell’acqua, ma dalla forza di gravità, quella forza che attira tutte le cose verso il centro della terra. Se c’è gravità una goccia d’acqua può anche scavare un canyon.

Il senso di giustizia e l’amore per il diritto possono essere grandi, immensi come i milioni di litri d’acqua contenuti in un bacino idrico, ma senza gravità non c’è forza, non c’è impeto, non c’è impatto: restano buone intenzioni e buoni sentimenti. La forza di gravità che fa scorrere la giustizia e il diritto con la stessa forza di un fiume in piena, con la costanza ed efficacia di un torrente perenne, è la fede nel Dio che per amore ci libera.
Amen.

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